Con la volontà si può migliorare il proprio benessere?
La risposta è sì e in questo articolo spiego perché l’effetto placebo ne è la prova.
Risulta che la volontà di stare bene può modificare il malessere di un’esperienza di sofferenza mentalmente interpretata ma fisicamente provata in una esperienza di migliore benessere.

Fra mente e corpo vi è un indiscutibile legame
Purtroppo questa verità, nel corso della storia, è stata ampiamente negata. Infatti, il rapporto psico-somatico è stato messo in dubbio in svariate occasioni, da una scienza riduzionista, che sosteneva di dover separare le due entità.

Attualmente, in molteplici settori della ricerca, prevale una considerazione maggiormente olistica
Infatti oggi la scienza è giunta alla formulazione di un nuovo modello che considera mente e corpo come parti essenziali di una unica natura. Si tratta di un modello bio-psico-sociale, che esprime in sé una visione unitaria dell’essere umano integrando la psiche con il soma considerando anche l’ambiente nel quale vive.

Mente, corpo e ambiente si influenzano vicendevolmente
Ne consegue che: se ambiente e corpo possono influenzare la mente, anche la mente può influenzare il corpo e l’ambiente stesso.
Grazie alla volontà, quindi, l’essere umano può andare oltre…
Non fermandosi alle semplici azioni, mediante le quali può migliorare le proprie condizioni, ma andando ad agire consapevolmente anche sul suo stato di salute psico-fisica.

Ciò è possibile perché…
Il corpo comunica alla mente con i sensi e, viceversa, anche la mente può comunicare qualcosa al corpo.
La connessione tra mente e corpo presenta i suoi vantaggi nella consapevolezza
L’utilità di questa consapevolezza oggi è studiata da una nuova disciplina chiamata Mindfulness. Quest’ultima fonda le sue radici nelle antiche pratiche meditative ZEN e riprende in mano i suoi concetti di base unendoli ai moderni progressi scientifici.
La Mindfulness è un argomento di vasta portata
e per questo vi ho dedicato un apposito articolo che potrai leggere cliccando sul seguente link. In questa sede mi limito a spiegare come la consapevolezza di questa connessione mente-corpo possa essere utilizzata vantaggiosamente trasformando un fenomeno di suggestione come quello dell’effetto placebo in un fenomeno di autosuggestione mediante la consapevolezza.

La mente può esprimere la sua volontà e migliorare la salute e il benessere di tutto l’organismo.
Prima di esporre in che maniera questo sia possibile, desidero sottolineare quanto questa realtà sia soggettiva. Infatti la volontà di stare bene del singolo, anche se indubbiamente un supporto morale da parte di persone care e vicine può essere utile, potrà sempre essere la determinante principale delle condizioni di salute del suo organismo.
In quale modo la volontà può influire sulle condizioni di salute di una persona?
Grazie ai nuovi e recenti contributi delle neuroscienze, risulta che l’effetto placebo sia la dimostrazione di come la volontà umana possa inserirsi tra la mente e il corpo congiungendo, quindi, aspetti legati alle emozioni e alla fiducia con quelli fisiologici e biologici.

L’effetto placebo era già ampliamente conosciuto e utilizzato in passato.
Ancora prima dell’avvento della moderna medicina l’effetto placebo veniva regolarmente utilizzato con la somministrazione di portentosi medicamenti che basavano la loro efficacia sulla suggestione di chi li assumeva, mentre in realtà si trattava di pillole di zucchero o altre sostanze prive di qualsiasi principio attivo. Quindi l’effetto della suggestione agisce sulla volontà di stare bene, che ora conosciamo tutti, ma che era già conosciuta prima che le scienze moderne se ne appropriassero.
Tuttavia, anche se “il senso comune” già evidenziava il funzionamento umano nei confronti della suggestione stessa, ora è ampliamente confermato che questo fenomeno può modificare le condizioni psico-fisiche degli individui grazie alla volontà di stare bene.

Suggestione a fin di bene
L’effetto placebo, quindi, non è altro che un modo con il quale la suggestione può essere utilizzata a fin di bene.
Se la suggestione produce degli effetti tangibili sul miglioramento del benessere, vuole dire che possiamo ottenere gli stessi effetti con l’auto suggestione.
Ciò significa che l’essere umano può essere in grado di agire autonomamente, grazie alla propria volontà, al fine di stare bene e aumentare le sue condizioni di benessere.
Di seguito riporterò alcune testimonianze scientifiche a conferma di tali affermazioni e per sottolineare, ancora una volta, quanto la mente, il pensiero, le credenze e il libero arbitrio possano essere importanti nel contesto di vita delle persone e, di conseguenza, quanto la Psicologia possa essere utile al fine di raggiungere un miglior benessere consapevole grazie alla volontà di migliorare la propria salute.

Dati empirici e ricerche recenti:
Lachaux e Lemoine (1988) riferiscono che la realtà del placebo è provata da molteplici studi per i quali si riscontra una grande disparità di indicazioni per via delle differenze al livello delle patologie e delle diverse tipologie di terapie che sono state considerate e che quindi si differenziano anche nelle risposte dei pazienti alle cure. Beecher (1955) afferma che è possibile riscontrare l’effetto placebo nel 35,2% dei casi nei quali viene somministrato e che i risultati variano a seconda del tipo di patologia con un valore medio del 30%.
Anche le più recenti ricerche confermano tali percentuali legate alla volontà di stare bene.
Placebo come rimedio al dolore
Nel trattamento del dolore sono state riscontrate le migliori potenzialità dell’effetto placebo ed è stato evidenziato che il 75% di pazienti sofferenti di dolori postoperatori riferiva che questi erano stati alleviati dall’iniezione di una soluzione fisiologica sterile. Il dolore e il disagio che esso provoca hanno storicamente rappresentato valide motivazioni a trovare soluzioni efficaci al fine di lenire le sofferenze. Risulta infatti che in passato, nelle popolazioni in cui lo stoicismo costituiva la norma culturale, venivano eseguiti abitualmente interventi chirurgici e si alleviava il dolore delle ferite di guerra, con metodi quali l’agopuntura e l’ipnosi, che oggi potremmo considerare ascrivibili all’effetto placebo (Purves, 2004).

Il dolore accompagna l’esistenza di ogni essere umano
Infatti è oggettivamente riconosciuto tuttavia oltre a essere utile alla sopravvivenza in quanto segnale che permette di individuare la presenza di un danno o del sopraggiungere dei sintomi di una malattia, può in taluni casi costituire la fonte di atroci sofferenze soprattutto in condizioni di cronicità. L’urgenza causata dal bisogno di trovare sollievo dal dolore ha indotto, in passato, la medicina occidentale a fare uso di sostanze anche insolite. Nel corso delle ricerche si è notato che la somministrazione di pillole chimicamente inerti era in grado lenire il dolore in molti pazienti. Questi risultati hanno sollecitato l’interesse dei ricercatori che nel corso degli anni hanno studiato gli effetti indiretti del trattamento basato sul placebo e sulle circostanze nelle quali è stato somministrato. Sono innumerevoli i casi nei quali l’effetto placebo si è manifestato in maniera evidente. In uno studio di Levine e collaboratori (1978), condotto su un gruppo di pazienti di dentisti ai quali era stato estratto il dente del giudizio, è stato condotto un esperimento nel quale, a una parte di loro, è stata somministrata della morfina, mentre a un altro gruppo è stata somministrata una soluzione salina inattiva.
Il riscontro è stato che un terzo dei pazienti, sottoposti al placebo, ha ottenuto risultati positivi, mentre nel caso della morfina quasi tutti hanno raggiunto buoni livelli di sollievo del dolore. Di particolare rilievo, nello studio sul dolore e di come questo sia curabile con il placebo è stata la scoperta di Grevert et al. (1983) che hanno riscontrato, in soggetti in fase postoperatoria, che l’effetto placebo può essere bloccato dalla somministrazione di una sostanza denominata naloxone, un’antagonista competitivo dei recettori degli oppiacei. Questo suggerì che il sollievo dal dolore può avere una sostanziale base farmacologia che coinvolge le endorfine.
In base a questo riscontro fu supposta l’esistenza di un’analogia tra l’efficacia dell’anestesia da agopuntura oppure praticata con l’ipnosi, con la pratica della somministrazione del placebo. Grevert e collaboratori hanno inoltre dimostrato che il naloxone non blocca completamente l’analgesia indotta dal placebo, ma piuttosto riduce l’efficacia dello stesso. Altre ricerche hanno infatti suggerito che i meccanismi alla base degli oppiacei non sono gli unici a determinare l’effetto placebo, ma che a questo contribuiscono anche sostanze non oppiacee. A sostegno di quest’ultima scoperta hanno contribuito gli studi di Rosenzweig (2009) sull’analgesia provocata da stress, che in laboratorio ha dimostrato che nuotare nell’acqua fredda determina, ai soggetti sottoposti alla prova, uno stress psico-fisico in grado di inibire le risposte al dolore.
Nella tabella seguente, si riportano, e si confrontano, i tipi di intervento volti al sollievo del dolore. Nella prima parte sono riportati alcuni interventi psicogeni, tra cui il PLACEBO, l’ipnosi, lo stress e i processi cognitivi.

La tabella evidenzia come il placebo possa essere classificato assieme agli interventi psicogeni, che presentano la caratteristica di essere tecniche che operano a livello psichico, cioè implicano variabili soggettive, interpretative e cognitive studiate dalle scienze psicologiche. Tra questi è menzionata l’ipnosi, che agisce alterando la percezione dolorifica del cervello, lo stress che può essere indotto ma che risulta clinicamente inappropriato e inutilizzabile, anche se è in grado di determinare effetti analgesici, e i processi cognitivi quali l’apprendimento di strategie di coping.
La modalità con cui il placebo agisce per inibire il dolore risulta la stessa con cui agiscono i processi di coping, cioè mediante l’attivazione del sistema di controllo del dolore mediato dalle endorfine, una risorsa intrinseca del corpo umano dotato di un suo autonomo metabolismo.
Nel caso del placebo l’attivazione di questo processo è indotta dalla somministrazione di una pillola inerte che il paziente considera un farmaco, mentre nel caso delle strategie di coping il paziente è consapevole di aver attivato il processo di controllo del dolore ed esercita coscientemente la propria volontà di stare bene.
Se esiste la possibilità di attuare tale modifica metabolica mettendo in atto “la suggestione attraverso il placebo”, questo potrebbe rappresentare un importante “anello di congiunzione” tra medicina e psicologia che, in questo caso, potrebbe offrire maggiore importanza all’aspetto psichico nei possibili interventi terapeutici volti a lenire il dolore e probabilmente potrebbe anche essere utilizzato efficacemente per curare stati patologici di varia entità. Come ho già menzionato precedentemente, oggi esiste la moderna tecnica della mindfulness che unendo antiche pratiche meditative zen alla consapevolezza riesce a mettere in pratica tali principi. A questo ho dedicato un’intera sezione visibile a questo link.
Dal punto di vista farmacologico:
Lo studio dell’effetto placebo, dal punto di vista farmacologico è nato nel 1978, quando è stato dimostrato che gli effetti analgesici del placebo possono essere bloccati da un antagonista degli oppioidi quale il naloxone, dimostrando un coinvolgimento degli oppioidi endogeni (Levine et al., 1978).
Utilizzando l’approccio farmacologico con il naloxone diversi altri studi hanno confermato l’evidenza che un placebo possa ridurre il dolore per il quale sono coinvolti meccanismi oppioidi e non oppioidi. Colloca e Benedetti (2005) hanno dimostrato infatti che nel caso siano coinvolti gli oppioidi, l’effetto analgesico del placebo è solitamente bloccato dal naloxone, antagonista degli oppioidi, mentre nel caso in cui siano coinvolti i non oppioidi, dipende della procedura che è stata applicata per indurre la risposta analgesica.
In una sperimentazione sul dolore condotta da Amanzio e Benedetti nel 1999, l’effetto placebo è risultato essere bloccato dal naloxone, quando indotto verbalmente mediante la persuasione del paziente a nutrire forti aspettative sull’efficacia della somministrazione della pillola inerte, mentre nel caso in cui il placebo era stato somministrato suscitando basse aspettative di efficacia, cioè senza fare leva sulla convinzione e suggestione del paziente, il naloxone è risultato inefficace. Nello stesso studio si ottenne una risposta positiva mediante la somministrazione di farmaci oppioidi confermata dalla “naloxone reversibilità”, e contemporaneamente si ottenne l’inefficacia del naloxone nel caso di somministrazione di farmaci non oppioidi.
Questi dati indicano che per il placebo non entrano in gioco esclusivamente meccanismi oppioidi ma anche non oppioidi, e che questa differenza è determinata da circostanze differenti, infatti è stato dimostrato che i sistemi endogeni legati agli oppioidi, attivati dal placebo, hanno un organizzazione somatotopica, in quanto risultano naloxone-reversibili in diverse parti del corpo (Benedetti et al., 1999). Sulla base dell’azione di un anti-oppioide quale la colecistochinina (CCK) (Benedetti, 1997), è già stato evidenziato che il proglumide, che è un antagonista del CCK, è in grado di migliorare gli effetti analgesici del placebo mediante l’attivazione dei sistemi oppioidi (Benedetti et al, 1995).
Quindi, la risposta analgesica al placebo sembra derivare da un equilibrio tra oppioidi endogeni e CCK endogeni (Fig.1).

In uno studio aggiuntivo effettuato su pazienti con dolori cronici, si è constatato che nei placebo-reattivi si sviluppa una maggiore concentrazione di endorfine nel liquido cerebrospinale rispetto ai soggetti non reattivi al placebo (Lipman et al., 1990).
È stato inoltre dimostrato che gli oppioidi endogeni attivati dal placebo sono in grado di produrre una “respiratory depression”: un effetto collaterale tipico degli oppioidi. La ”respiratory depression” risulta essere totalmente inibibile dal naloxone e questo prova che l’attivazione dei sistemi oppioidi, a mezzo del placebo, non agisce solamente sui meccanismi del dolore, ma anche sui centri respiratori (Benedetti et al. 1999) (Fig. 1). Un recente studio, in cui è stato analizzato il funzionamento del sistema nervoso simpatico in relazione al funzionamento del muscolo cardiaco, si è scoperto che l’effetto placebo è stato accompagnato da una ridotta frequenza cardiaca ed una riduzione di “adrenergic response”. Anche in questo caso il naloxone ha dimostrato di essere in grado di inibire questi effetti, testimoniando in questo modo la mediazione degli oppioidi che erano intervenuti perché prodotti dal placebo, incidendo di conseguenza anche sul sistema cardiovascolare (Pollo et al, 2003) (Fig. 1).
La tesi che la somministrazione del placebo determini effetti che non coinvolgono solamente meccanismi oppioidi ma anche non oppioidi è stata confermata, sempre da Benedetti (2003), che ha condotto delle sperimentazioni al fine di indurre mediante la somministrazione di placebo la secrezione di ormoni della crescita (GH) o di cortisolo in pazienti affetti da morbo di Parkinson e in soggetti sani, provocando in questi ultimi una risposta di dolore mediante un’ischemia ad un braccio. Occorre precisare che l’ormone GH e il cortisolo sono antagonisti, infatti il cortisolo inibisce la sintesi del GH e che la secrezione di quest’ultimo favorisce l’attività psicomotoria mentre il cortisolo la inibisce. Durante l’esperimento è stato appurato che era impossibile determinare, mediante placebo induzione, la secrezione degli ormoni della crescita o del cortisolo, altresì si ottenne un aumento di secrezione ormonale nei pazienti in seguito a una precedente somministrazione farmacologica. In questo caso il placebo, insieme al relativo condizionamento verbale condotto al fine di determinare una maggiore o diminuita attività psicomotoria, risultava produrre cambiamenti quantificabili di ormoni nel plasma. Durante la sperimentazione è stata eseguita, prima della somministrazione del placebo, una somministrazione d sumatriptan, che è un agonista di 5-HT1B/1D e che quindi è in grado di stimolare il GH e inibire la secrezione di cortisolo. In seguito a questa procedura, si riscontrava che la somministrazione di un placebo e delle relative suggestioni verbali, al fine di aumentare l’attività psicomotoria, determinava un significativo e successivo aumento di GH e una conseguente diminuzione di concentrazione di cortisolo nel plasma. (Fig. 1). Questi risultati suggeriscono che le aspettative e le speranze indotte mediante un placebo non hanno alcun effetto sulla secrezione diretta e iniziale di ormoni, mentre risulta che l’utilizzo dell’effetto placebo può essere determinante se sono già in atto processi fisiologici, anche inconsapevoli, come appunto le secrezioni ormonali.
Quindi l’azione del placebo risulta essere efficace non solo quando si tratta di processi fisiologici di cui si ha coscienza e percezione, quali il dolore e la performance psicomotoria, ma anche nei processi fisiologici inconsci e inconsapevoli. Inoltre, l’effetto placebo potrebbe quindi essere “apprendibile” sia consciamente che inconsciamente, a seconda delle funzioni fisiologiche coinvolte.
Questi studi mettono in evidenza che i meccanismi del placebo hanno una notevole influenza sul risultato terapeutico, essendo in grado di aumentare l’effetto di un trattamento farmacologico. Questo è stato ulteriormente dimostrato da recenti studi che hanno valutato l’efficacia del trattamento dopo la somministrazione di placebo in ripetute e differenti terapie, infatti, la somministrazione “espressamente dichiarata” di un trattamento a un soggetto, che quindi è al corrente di cosa sta succedendo, determina in lui l’aspettativa di un risultato, e questo fa sì che la terapia sia maggiormente efficace di un trattamento di cui il soggetto non è al corrente e non è stato sufficientemente informato, perché, in questo caso egli non avrà modo di crearsi le necessarie aspettative (Colloca et al., 2004).
Allo stesso modo, l’attesa somministrazione di un farmaco ha un effetto più potente sul metabolismo cerebrale che la somministrazione inaspettata dello stesso farmaco (Volkow et al., 2003).
Neuroscienze e nascita di nuovi paradigmi
Nel campo delle neuroscienze gli studiosi stanno ripercorrendo passaggi epistemologici che sono stati fondamentali anche per la nascita della scienza psicologica. In questo ambito l’effetto placebo viene considerato un fenomeno che può essere attribuibile a diversi meccanismi determinati dalle aspettative soggettive di miglioramento clinico e da fattori di condizionamento di origine pavoloviane.
In recenti studi sono stati esaminati meccanismi diversi e condizioni differenti che caratterizzano l’effetto placebo, in quanto si è riscontrato che non esiste unicamente un singolo effetto, ma se ne possono individuare molteplici e vanno pertanto considerati in una dimensione psico-biologica complessiva.
Le neuroscienze recentemente hanno posto un notevole interesse sul fenomeno dell’effetto placebo al fine di comprendere come la complessa attività mentale generata dalla speranza, che sta alla base di questo fenomeno, interagisca con i diversi sistemi neuronali.
Per questo motivo, alcuni scienziati ritengono che l’effetto placebo, oggi , dovrebbe e potrebbe essere considerato in una nuova accezione che vada oltre la sua attuale definizione (Colloca e Benedetti,2005; Finniss e Benedetti, 2005).
Le recenti scoperte, all’interno di tale settore scientifico disciplinare della ricerca e il fatto che sia oramai certo che tale fenomeno sia in grado di determinare cambiamenti che non interessano unicamente la psiche ma che coinvolgono anche il soma in maniera fisiologicamente concreta, è il motivo per cui si ritiene che una definizione più recente del placebo dovrebbe comprendere una dimensione nella quale si possa prendere in considerazione la possibilità di ampliare le capacità endogene umane mediante un maggiore autocontrollo e consapevolezza.
Lo studio dell’effetto placebo riflette, quindi, il pensiero attuale delle neuroscienze che prevede l’idea che costrutti “soggettivi”, come la speranza e l’aspettativa di guarigione possano avere delle basi fisiologiche mediate da funzioni cognitive, percettive e motorie all’interno di quelli che sono i processi di regolazione omeostatica.
Gli scienziati sono inoltre interessati alla risposta placebo in quanto essa fornisce un punto di accesso per lo studio dei meccanismi di controllo mentale degli affetti, dei processi sensoriali e periferici, al fine di comprendere come il contesto delle credenze e dei valori definisca processi di funzionamento mentale correlati alla percezione e all’esperienza emotiva e di come tutto ciò a sua volta possa determinare il livello di salute mentale e fisica degli esseri umani agendo direttamente mediante la propria volontà di stare bene. (De la Fuente-Fernandez et al, 2001; Mayberg et al, 2002; Petrovic et al, 2002; Lieberman et al, 2004; Colloca e Benedetti, 2005; Zubieta et al, 2005).
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